La riduzione del canone nelle locazioni commerciali
La buona fede e l’equilibrio contrattuale ai tempi della pandemia
In un periodo storico in cui tutti gli operatori economici lottano per far quadrare i conti ed in cui è davvero difficile pensare ad una ripresa economica, i Tribunali iniziano a pronunciarsi sull’importante tema del pagamento dei canoni di locazione degli immobili nei quali si svolgano attività commerciali sospese o ridotte in seguito ai provvedimenti assunti per contrastare la diffusione della pandemia.
In particolare, in materia di sfratto per morosità, nei mesi scorsi sono state pronunciate alcune sentenze nelle quali si è riconosciuto il diritto, in capo al conduttore, di recedere dal contratto o, alternativamente, di ottenere una consistente riduzione del canone locatizio proprio in virtù del fatto che per lunghi periodi non è stato possibile svolgere alcuna attività economica o perché, in ogni caso, è stato consentito lo svolgimento dell’attività con importanti limitazioni.
Con la sospensione totale o parziale di numerose attività commerciali, le società conduttrici si sono spesso trovate senza alcuna colpa nella temporanea impossibilità di far fronte al pagamento dei canoni a causa della riduzione (o azzeramento) del fatturato, cui è conseguita la proposizione dello sfratto per morosità ai danni di chi, di fatto, si trovava in quello specifico momento in una situazione di obiettiva assenza dei mezzi economici per poter pagare le mensilità.
Ebbene, in alcuni casi i Tribunali sono arrivati alla decisione di non procedere con la convalida dello sfratto proposto dal proprietario ritenendo che, a causa delle restrizioni imposte dalla normativa sanitaria in vigore, la società intimata non fosse in grado di godere, se non in misura ridotta, dei beni oggetto del contratto e di pagare, di conseguenza, il canone mensile.
La parte conduttrice in alcuni casi si è vista riconoscere il diritto di esercitare il recesso dal contratto di locazione o di domandare la riduzione della propria prestazione.
Provvedimenti di questo tipo sono fondati su ragionamenti di carattere giuridico diretti a riequilibrare la situazione sulla base di una corretta considerazione della circostanza (la pandemia e l’interruzione o riduzione dell’attività lavorativa) che impedisce di far fronte al pagamento dei canoni.
Anche la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema degli effetti della pandemia su tutti i contratti di durata e, quindi, anche sui contratti di locazione e ha sottolineato che il dovere delle parti di comportarsi secondo correttezza e buona fede (stabilito dagli artt. 1175- 1375 c.c.) è un principio che vincola le parti anche in ipotesi quali quelle esaminate sopra.
Sulla base di tale correttezza e buona fede le parti hanno il dovere di rinegoziare un contratto non più equilibrato (e non lo è più per chi deve pagare nonostante non possa più lavorare).
Secondo la Cassazione, quindi, il principio di buona fede impone ai contraenti di “rendersi disponibili alla modificazione del contatto, allorché la parte interessata a mantenere in essere un rapporto in senso aderente alla concreta realtà del mercato inviti l’altra a rinegoziare”, con conseguente obbligo di quest’ultima di condurre la rinegoziazione in modo costruttivo, secondo i criteri derivanti dalla clausola generale di buona fede.